La sfida educativa: serve un cambio di prospettiva

Educare non significa possedere: scopri come un cambio di prospettiva può trasformare il rapporto genitori-figli.

Da tempo mi pongo una domanda: e se educare necessitasse di un cambio di prospettiva?

Mi spiego meglio.

La società che abbiamo contribuito a realizzare è, fra l’altro, fondata sul “possedere”.

Lo psicologo Erich Fromm, con il saggio “Avere o essere?” (edito nel 1976!), già rifletteva sulla nostra società imperniata sull’avere, sul possedere, piuttosto che sull’essere.

Per le sue riflessioni, Fromm si è basato anche su spunti proposti da altri autori, decenni antecedenti.

Questo per dire che da diverse generazioni siamo completamente immersi nella “cultura del possesso”.

Inoltre, la lingua non aiuta anzi è piuttosto ambigua fino a trarci nell’inganno psicologico.

Con disinvoltura e superficialità diciamo, per esempio, “mio figlio”.

È vero, l’aggettivo “mio” indica possesso che, estremizzando, può avere come implicazione e conseguenza la convinzione che “Di quel che è mio, faccio ciò che voglio”.

In questo senso, purtroppo, la cronaca ci propone genitori, soprattutto padri, che considerano il figlio un possesso e pongono fine alla sua vita per vendetta nei confronti della donna e madre che ha deciso di interrompere il loro rapporto.
Anche lei ritenuta cosa di proprietà, più che persona.

È anche vero, però, che l’espressione “mio figlio” indica l’esistenza di una relazione, in questo caso relazione di parentela, e rimanda all’appartenere nel senso di fare parte della famiglia a cui, io stesso genitore, appartengo.

Quando utilizziamo l’espressione “mio figlio” lo facciamo nel senso del possesso o del fare parte?

Fa una grande differenza rispondere in un senso o nell’altro.

Sull’idea di possedere i figli, il poeta K. Gibran ci toglie ogni dubbio: “I vostri figli non sono figli vostri. Sono i figli e le figlie del desiderio che la vita ha di se stessa. Essi non provengono da voi, ma attraverso di voi. … Voi siete gli archi dai quali i vostri figli, come frecce viventi, sono scoccati”.

Pensiamoci bene: cosa possediamo? Di cosa siamo padroni?

Per chi crede in Dio, e io fra questi, i figli sono figli della Vita.

Anche chi non crede li può considerare figli della vita, con la “v” minuscola.

Se i figli non sono nostri, come in effetti nostri non sono, a che titolo fanno parte della famiglia di cui, come genitore, anch’io faccio parte?

E se i figli ci fossero affidati dalla Vita/vita?

E se noi stessi, in stagione avanzata della vita, fossimo affidati ai figli, alle loro cure, in una dinamica che si amplia e si trasforma da genitori/figli a figli/genitori?

Ma questo è un altro aspetto dell’approccio alle relazioni umane fondato sul principio dell’affidamento, sul reciproco affidamento.

Sì, i figli ci sono affidati, dati in custodia.

Consegnati, anche per lungo tempo ma temporaneamente, alla nostra cura e capacità.

Se abbandoniamo il pensiero ingannevole di possedere un figlio allora operiamo un cambio di prospettiva ricco di implicazioni e conseguenze che conferiscono spessore, diversa significatività alla relazione genitori/figli e, successivamente, alla relazione figli/genitori.

Considerarmi affidatario, di qualcosa o qualcuno, implica che sono chiamato a rispondere di ciò, di chi mi viene affidato, ovvero comporta che ne sono responsabile.

Articolando e specificando: sono responsabile di ogni mio comportamento, espressione, scelta, decisione e omissione che possono favorire o compromettere, nella persona del figlio che mi è stato affidato, il suo equilibrato sviluppo e strutturarsi della “sua” personalità.

In quel “rendendone ragione” ci leggo un chiaro rimando ad un’altra parola chiave: consapevolezza.

Nella dinamica genitori/figli, consapevolezza e responsabilità sono fortemente intersecate fra loro e l’una rimanda costantemente all’altra.

Ci diremo meglio. Per ora, buona riflessione sul cambio di prospettiva.

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Questo post è già stato pubblicato da , inserto settimanale di Avvenire, quotidiano nazionale di ispirazione cattolica.

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